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DELITTI ALLA SCALA Fazi Editore 2003 Finalista premio Giorgio Scerbanenco 2003 ISBN:88-8112-423-8
Pubblicato in Germania dalla casa editrice ROWOHLT
La Scala aveva un meccanismo perfetto come quello di un orologio svizzero. Tutto, tranne l’eventualità di un delitto, era previsto.
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Milano, Teatro alla Scala, tutto è pronto per l’inaugurazione con mise en scène de La Traviata. Ma poco prima dell’inizio, tra i palchi ancora vuoti del teatro, viene commesso un efferato assassinio.
Ruggero Solara, testardo e tenace procuratore romano da poco trasferitosi a Milano, che poco o nulla conosce della città, dei suoi riti e, soprattutto, della Scala, congela la scena del delitto e fa annullare la rappresentazione. Nella storia dei teatri lirici più famosi del mondo non era mai accaduto niente di simile: l’eco è immediata e clamorosa. Quel delitto però non sarà il solo. Non appena l’opera verrà finalmente rappresentata ne seguiranno altri, più ancora misteriosi e cruenti del primo.
Lo sconcerto e il panico diventano generali, la vita stessa della città sembra paralizzarsi.
Le indagini condurranno il procuratore Ruggero Solara alla scoperta di una Milano visceralmente legata al proprio teatro, ricca di umanità e di fascino, ma in cui si agitano rancori, rivalità e sotterfugi per la conquista del potere.
Così finirà lui stesso vittima della sottile magia della Scala, irretito tra corteggiamenti di giovani donne sensuali e sguardi di deliziose signore milanesi. Ciò non gli impedirà di mettere a punto un’abile e sofisticata strategia per smascherare il vero colpevole.
La trappola predisposta trasformerà questo romanzo d’indagine in uno scritto psicologico e d’azione, forte di una scrittura lineare, ricca si sofisticati chiaroscuri e immagini mozzafiato.
Un giallo classico e insieme il ritratto impietoso e innamorato di una città dai mille volti.
Era il suo rito, quello. Un rito personale, segreto, misto di scaramanzia e di sentimento, e di rinnovata meraviglia. Nessuno ne era al corrente e lui certo lo avrebbe negato mascherandosi dietro lo sguardo ironico dei suoi occhi intelligenti. Ma negandolo il cuore gli si sarebbe stretto in una fitta e le dita, nascoste nelle tasche della giacca, gli si sarebbero incrociate in uno scongiuro. Sorrise di sé. Che uomo contraddittorio che era! Laureato in ingegneria, si era dedicato con passione al teatro. Formato alla mentalità scientifica, era superstizioso come un pescatore. Razionale fino alla sottigliezza, cedeva sempre alle emozioni. Sinceramente innamorato della moglie, non poteva evitare di tradirla in continuazione...
Contrariamente alla maggior parte degli uomini, trovava diletto nell’analizzare i vari aspetti del proprio carattere e nel cercare di capirne le origini e le motivazioni. Scrutava i propri atti e i propri sentimenti come se fossero quelli di qualcun altro, li giudicava e li classificava. E poi, immancabilmente, li giustificava tutti con serena magnanimità. Riflettere su se stesso lo compiaceva, ma non era momento per le riflessioni, quello.
Mancavano appena due ore perché la prima del Teatro alla Scala avesse inizio, e doveva affrettarsi. In pochi minuti, col suo passo elegante, elastico fino all’ultima delle cinque rampe di scale, raggiunse il loggione: il luogo consacrato al suo rito.
Da lì, la vista del teatro era magnifica e lui ne rimaneva ancora, dopo nove anni di quotidiana frequenza, soggiogato. Appoggiò i gomiti sul corrimano di ottone posto sopra la bassa balaustra ricoperta di velluto rosso, posò il mento sulle lunghe mani intrecciate e lasciò che il suo sguardo vagasse pigramente intorno.
La luce delle grandi appliques lungo i palchi si rifletteva vivamente sugli ori e sugli stucchi, ma arrivava morbida, quasi soffusa, a rischiarare il velluto scarlatto delle poltrone in platea.
Nella penombra, i fioristi si muovevano sicuri, sistemando veloci infiniti addobbi di rose bianche e rosse, seguiti a ruota dagli addetti alle pulizie. Le maschere, con già indosso le loro divise austere, facevano l’ultimo giro di controllo parlottando a bassa voce. Nella grande sala a ferro di cavallo, lungo i corridoi, tra le poltrone, nei palchi, tra gli innumerevoli globi di vetro di Murano del gigantesco lampadario, dappertutto si avvertiva un fremito di eccitazione e di attesa. Era nell’aria, lo si poteva quasi respirare. Finanche il pesante sipario tutto rubino e oro sembrava vibrare di ansia nel desiderio di spalancarsi sulla grande musica.
Luca Gentile Modotti, da nove anni direttore artistico del Teatro alla Scala, si accinse per la nona volta a propiziare l’apertura della stagione. Il suo rito era semplice e infantile e per ciò stesso inconfessabile.
Gli era accaduto, appena avuto quell’incarico, di ritrovarsi per qualche ragione nel loggione mentre si stavano facendo gli ultimi preparativi per la prima, e di aver cercato di placare il proprio nervosismo contando velocemente, a mezza voce, le 698 poltrone della platea. Se fosse arrivato fino alla seicentonovantottesima senza incespicare, si era detto, la stagione sarebbe andata bene. Non aveva incespicato e la stagione era andata a meraviglia.
Di conseguenza, ogni sette dicembre, verso le quattro, quattro e un quarto, era tornato lì, con la tensione, l’umiltà e il senso di mistero di chi fa un voto, a ricontarle. Una cosa ridicola? si era chiesto. Una necessità assoluta, si era risposto. Perché in amore, e lui quel teatro lo amava di vero amore, il ridicolo non esiste.
Le luci si spensero. Buio totale. Poi si riaccesero tutte, al massimo. Quindi le 365 lampadine dell’enorme lampadario sfavillarono per affievolirsi subito dopo fino a spegnersi, mentre quelle delle appliques finivano per stabilizzarsi su un leggero chiarore.
La prova luci era finalmente terminata. Ora poteva cominciare a contare. Si raddrizzò e poggiò le mani sull’ottone freddo del corrimano. Inspirò, espirò, poi inspirò di nuovo. Era pronto.
<<Uno due tre quattro cinque sei sette otto nove dieci undici>>.
Era arrivato a centodiciassette quando una morsa gli afferrò le caviglie, gli sollevò in alto le gambe, lo sbilanciò in avanti, lo ribaltò nel vuoto. D’istinto, si aggrappò al corrimano, le mani contratte dal terrore. Due colpi secchi e duri sulle dita gli fecero mollare la presa.
Precipitò in verticale, urlando. Rovinò su una delle appliques, si rovesciò su se stesso e finì capofitto sulla moquette scarlatta. Esattamente tra le poltrone 1-X e 1-V del lato sinistro.
Era inquieto e non sapeva perché. Meglio ancora, era inquieto e non voleva chiedersi il perché.
“Quando qualcosa ci turba, noi lo sappiamo sempre, cos’è, ma preferiamo nascondercelo”. La frase, tipica del sentenziare di Marta, gli echeggiò nella mente. La cancellò con fatica. Tutto ciò che riguardava Marta era difficile da cancellare, nel bene e nel male. Ed era per quello, in fondo, che lui, Ruggero Solara, ora si ritrovava lì, in quell’ufficio, a Milano.
Si tolse gli occhiali, si massaggiò la radice del naso, fissò le forme improvvisamente indefinite che presero a fluttuargli intorno e si rese conto che quella inquietudine gli stava addosso dal mattino, da quando, per l’esattezza, si era svegliato di colpo, alle sei, col mal di testa e la bocca amara, nella penombra densa della sua stanza. Il mal di testa e la bocca amara erano certo dovuti al troppo whisky bevuto in solitudine la sera prima, d’accordo. Ma cosa l’aveva svegliato così presto? Ricordò che si era messo in ascolto. Il residence era immerso nel silenzio. Un rumore venuto dall’esterno, allora. Per capire cosa fosse stato era andato alla finestra, aveva tirato su la saracinesca, aveva passato una mano sui vetri opachi di umido, e aveva guardato fuori.
La luce gialla, intermittente, del camion della nettezza urbana che l’aveva svegliato con i suoi clangori stava avendo la peggio contro tutto il grigio della nebbia che la circondava e, lentamente, la cancellava. E lui si era ricordato all’improvviso di quando, bambino, si divertiva a sciacquare i pennelli di sua madre e a guardare dentro il barattolo di vetro, sempre incredulo che una punta appena di colore nero potesse tramutare quell’acqua chiara in uno strano liquido grigio opaco, contro il quale, per qualche istante, lottavano, fino a svanire, i rimasugli dei colori vivaci incrostati sui bordi.
Ecco, era stato in quel momento che si era sentito prendere dall’inquietudine. Certo perché qualcosa, dentro di lui, aveva associato la vaghezza di quell’immagine alla vaghezza del proprio futuro, d’improvviso tanto diverso da quello che per anni si era prospettato.
No, niente introspezioni. Quelle erano specialità di Marta, e Marta non doveva colpire ancora. Non in quel momento. Aveva da lavorare, lui. Si rimise gli occhiali e immediatamente l’ufficio della procura riprese, netti, i suoi contorni.
Pareti bianche, un calendario, una foto in bianco e nero di carrozze a cavalli a passeggio davanti al Duomo, scrivania di legno grigio chiaro, archivi di metallo grigio topo, grigio antracite fuori dalla finestra. Se non fosse stato un procuratore arrivato lì fresco fresco di trasferimento, pensò Solara, avrebbe messo qualcosa di colorato sulla scrivania. Una pianta, una pietra, una foto, una risma di carta gialla, qualcosa che gli potesse risollevare il morale, qualcosa che non fosse grigio-depressione, insomma. Ma si era detto che era meglio di no, almeno per il momento. Meglio non farsi affibbiare subito l’etichetta di eccentrico e adattarsi presto all’ambiente.
Era lo scotto che bisogna pagare quando si cambia sede e lui lo pagava volentieri anche perché si rendeva perfettamente conto che gli era andata più che bene. Certo per merito del suo curriculum che lo aveva posto in cima alla graduatoria, ma anche perché aveva avuto fortuna. Il bando con le sedi vacanti era uscito in un periodo in cui traboccava di rabbia impotente e così aveva firmato per tutte le sedi disponibili, da Milano in giù, neanche si ricordava più quali. Si sarebbe potuto ritrovare a Nuoro, o a Enna, per quel che ne sapeva.
Era stato così che, pur di scappare da Marta, era scappato anche da Roma. Non aveva rimpianti, aveva fatto bene, ne era più che convinto. Solo un po’ di tempo e si sarebbe ambientato. Ci sarebbe stato da dio, lui, a Milano.