MAI CON I QUADRI

Longanesi Editore 1997

Scritto a quattro mani     con Federico Zeri.

ISBN:88-304-1431-X

 

Tradotto in Germania dalla casa editrice "Classen" col titolo DIE FÄLSCHER

 

Pubblicato a puntate sul quotidiano tedesco "Frankfurt Rundschau"

 

 

Dietro l'immagine stavolta si nasconde un delitto... Un giallo sul mondo dell'arte.

RISVOLTO DI COPERTINA

INCIPIT

 

 

 

 

RISVOLTO DI COPERTINA

 

   Roma. Nella preziosa cornice della Chiesa di San Giacinto alle Fontanelle i più bei nomi della nobiltà, del corpo diplomatico e del mondo dell’arte partecipano ad un cocktail organizzato dal parroco don Maida per festeggiare il restauro di un affresco del XV secolo. Ma la festa si volge in tragedia quando, in un ripostiglio accanto all’affresco, viene trovato un cadavere, fasciato in un tailleur Valentino giallo pallido intriso di sangue. E’ quello di Isabella De Gherarducci, docente di Storia dell’Arte all’università    La Sapienza, donna di polso e di valore, dotata di grande fascino e grandissime ambizioni.

   Urla, sgomento, paura: il cuore mondano dell’aristocrazia è in subbuglio, trafitto anch’esso dal pugnale del delitto. Le indagini vengono condotte dal procuratore Blasi e dal maresciallo Merulla, estranei come più non si potrebbe all’ambiente elitario in cui è maturato l’omicidio. Il loro fiuto condito di sano scetticismo corre il rischio di smarrirsi nei torbidi labirinti di questo oscuro delitto, quando un raro quadro del ‘600 indica una nuova pista... In una Roma cinica e barocca, ritratta con ironia insieme graffiante e affettuosa, tra bel mondo e alta finanza, incenso e whisky, prelati e principesse, si dipana un gioco sottile ordito di trame nascoste sul filo della suspense, dove intrighi, ipocrisie, complicità, amicizie (vere o presunte) e passioni compongono un giallo raffinato, elegante, in cui l’autentico e il falso si mescolano con aerea disinvoltura, a comporre una tela di ragno (volutamente?) in bilico tra finzione presunta e non impossibile realtà.

 

 

INCIPIT

 

   Un alito tiepido di vento si insinuò tra le esili colonnine di marmo del chiostro di San Giacinto alle Fontanelle e catturò in sé il sospiro di sollievo di don Celestino.

   Il compito inconsueto che gli era stato affidato era stato piuttosto arduo per un pretino come lui, così fresco di anni e di voti, ma l’energico entusiasmo dei suoi giovani anni aveva egregiamente supplito alla sua inesperienza. Tutto stava andando alla perfezione.

   Certo che, quando cinque mesi prima il padre superiore l’aveva preso da parte e con fare paterno gli aveva comunicato che lui, proprio lui, era stato chiamato a Roma per fare da segretario al vecchio parroco di una delle più celebrate chiese della Città Eterna, il suo animo fremente proteso ai sacri compiti del sacerdozio mai avrebbe potuto immaginare che il suo primo, rilevante, incarico sarebbe stato quello di organizzare un cocktail.

   Ma le vie del Signore sono infinite, pensò don Celestino scrutando la fascia di mosaici di porfido e oro che correva sotto l’architrave del chiostro duecentesco come per individuare lì la trama del Suo disegno, e non spettava certo a lui chiedersi se dovessero proprio passare attraverso tartine al salmone e Negroni.

   Una voce cristallina sovrastò il brusio che veniva dalla sala del refettorio e lo riportò bruscamente ai suoi doveri. Don Celestino si sistemò automaticamente le pieghe della tonaca, varcò una delle tre arcate gotiche decorate da lussureggianti trionfi di garofani e azalee bianche che si aprivano sul chiostro, e rientrò nel refettorio.

   Questo era uno stanzone grande, rettangolare, che per decenni o forse per secoli era stato tenuto in nessun conto, tanto da essere divenuto magazzino degli addobbi e ricettacolo d’ogni cosa, ma sulla cui parete appena un anno prima, del tutto casualmente, era stato scoperto un enorme affresco.

   L’affresco era del XV secolo e si era miracolosamente salvato, insieme al prezioso chiostro medioevale, dai rifacimenti barocchi voluti dal Cardinal Ottoboni alla fine del Seicento che avevano cancellato in tutta Roma gran parte delle opere d’arte dei secoli precedenti.

   Raffigurava il miracolo evangelico della moltiplicazione dei pani e dei pesci, e mostrava tutti i caratteri di un artista tra Antoniazzo Romano e Melozzo da Forlì. Al momento del rinvenimento era talmente danneggiato che il parroco don Maida aveva avuto il suo bel da fare per trovare un mecenate disposto a sborsare col sorriso sulle labbra i danari necessari per il restauro.

   L’aveva infine trovato nella persona della principessa Papazzurri, assidua alle sue prediche domenicali e indiscussa guida mondana delle numerose dame della nobiltà romana. Era appunto il restauro dell’affresco che si stava così mondanamente celebrando quel dorato pomeriggio romano di metà ottobre. Ed era stata appunto la voce cristallina della principessa a scuotere don Celestino dalle sue riflessioni.

   Bastava uno sguardo alla sala per rendersi conto che era lei, più che l’affresco, la vera festeggiata di quel cocktail. Alta, snella di quella snellezza che viene da generazioni e generazioni di chi non si è mai dovuto piegare al lavoro e non ha mai saputo la differenza tra il cibo quotidiano e quello della domenica, spiccava composta e sorridente tra la gente che faceva a turno per sciamarle intorno.

 

   Il suo vestito di taglio perfetto aveva gli stessi toni chiari dell’affresco e faceva sembrare un po’ troppo candide le corbeilles di garofani bianchi appositamente scelti per rendere omaggio ai monaci che secoli prima si erano aggirati in quelle stanze.

   Bianchi erano anche cinque capelli che spiccavano sulla sua tempia destra tra la gran massa lucente e castana e che le conferivano un tocco di principesca nonchalance per gli inesorabili danni del tempo. Solo il suo fido parrucchiere Alessandro sapeva quanta accortezza e quanta cura ci volessero per isolare ogni quindici giorni quei cinque capelli, e sempre quei cinque, dal rituale impacco della tinta.

   Accanto a lei, a ricevere gli omaggi col benevolo sorriso che si addice ad un vecchio parroco, c’era don Maida.

   Don Celestino appoggiò le spalle alla parete e rimase a contemplare la scena da lontano, un po’ appartato e ancora incredulo perché quelle mosse pacate, quell’aria soddisfatta e naturale che il parroco e la principessa andavano sfoggiando non avrebbero mai lasciato supporre l’ansia febbrile che li aveva invasi durante l’organizzazione del ricevimento.

Lui, nato e cresciuto nella piccola città costiera di Terracina e poi chiuso tra le mura di un seminario nei dintorni di Frosinone aveva assistito soltanto, e molti anni prima, ai modesti preparativi per il matrimonio di una sua cugina, che pure gli erano sembrati eccessivi e astrusi. Ora, catapultato nel cuore mondano della nobiltà nera, aveva dovuto fare appello a tutta la sua obbedienza e a tutta la sua umiltà per non mostrare meraviglia davanti all’impegno e alla tensione che avevano divorato il suo parroco e la principessa nei giorni dei preparativi.

   Delegato ai compiti minori, meramente tecnici, della preparazione, era stato sempre presente al fitto confabulare di quei due e sapeva bene quanto era stata concitata l’elaborazione della lista degli invitati, a chi ci si era dovuti raccomandare per ottenere la presenza dell’ambasciatore della Gran Bretagna, quanto era stata sofferta l’esclusione della marchesa tal dei tali invisa alla contessa tal altra ritenuta indispensabile al buon esito del cocktail, quante telefonate la principessa aveva dovuto fare al colonnello tizio e al generale caio, quanto era stata accurata la scelta delle personalità da invitare e di quelle da evitare assolutamente, quante volte il parroco aveva rincorso il cardinale per strappargli un forse, quanto era stata gradita la risposta affermativa del sovrintendente alle Belle Arti e quanto più ancora quella della contessa Elsa Della Gioia, una delle rare intellettuali dell’aristocrazia romana con la quale proprio ora la principessa stava scambiando la finzione di un duplice bacio sulle guance mentre lo sguardo del parroco vagava inquieto per la sala fino a fissarsi nel suo.

   Uno sguardo di colpo privo di ogni benevolenza.